Per la scuola non ci sono “tagli cattivi” e “tagli buoni”, a seconda di chi li subisce: i tagli sono un danno e basta, la stagione dei tagli va chiusa, su istruzione e formazione si torni a investire.
Chi oggi invoca tagli alla scuola non statale per finanziare “la scuola pubblica” indica una strada sbagliata e pericolosa, travisando la realtà con forzature ideologiche prive di senso e gravide di rischi.
Il primo travisamento è sui valori economici in gioco: l’entità di quanto viene destinato alla scuola non statale non consente proprio di immaginare chissà quali recuperi di risorse. Nel bilancio del MIUR, che è più o meno di 50 miliardi, sono stanziati per la paritaria all’incirca 500 milioni, un livello di spesa mediamente invariato negli ultimi anni, con oscillazioni che potrebbero apparire paradossali (cresciuto con i governi di centro sinistra, calato con quelli di centro destra).
La scuola paritaria poi, a partire dal 2000 (legge 62, governo di centro sinistra) è parte di un sistema pubblico integrato, con un accreditamento che presuppone il soddisfacimento di precisi requisiti attestanti la qualità e la pubblicità del servizio che rende. In molti casi, peraltro, si tratta di riconoscere ciò che storicamente avviene, cioè l’offerta di un servizio alla comunità nato molto prima dell’intervento statale e mai rivolto a fini di lucro.
Chi invoca “buoni tagli”, rifletta sul fatto che gli unici a non esserne toccati sarebbero proprio gli istituti privati estranei al circuito delle paritarie, come i tanto deprecati diplomifici, che non hanno certo bisogno di sussidi e se la caverebbero sempre e comunque. Ad andare in sofferenza, come in realtà già avviene, sarebbero proprio le scuole paritarie che rendono un servizio pubblico diffuso, coprendo in alcuni settori circa la metà del fabbisogno formativo.
C’è infine un altro aspetto, che certe “illuminate” prese di posizione ignorano, o fingono di non vedere: le ricadute che i “tagli buoni”avrebbero sull’occupazione in una realtà dove sempre più spesso si rende necessario, per difendere il lavoro, ricorrere a contratti di solidarietà che sacrificano condizioni economico normative già in partenza meno vantaggiose di quelle del settore statale.
Noi siamo un sindacato, per noi è naturale difendere il lavoro, a prescindere dalla sua natura “pubblica” o “privata”.
Per noi la perdita del lavoro è comunque un dramma, per altri evidentemente no, per loro ci può essere una disoccupazione “buona”, se soddisfa la purezza dei canoni ideologici su cui vorrebbero condurre le loro battaglie; crociate delle quali i lavoratori, la scuola e il paese non hanno davvero alcun bisogno.
Roma, 9 ottobre 2013
Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola