Sono 2,7 miliardi le persone che saranno connesse a internet da qui alla fine dell’anno, vale a dire circa il 40% della popolazione mondiale. Lo rivela l’ultima classifica dell’ITU (Unione internazionale delle telecomunicazioni) sui livelli di accesso, utilizzo e competenze in materia di Ict in 157 Paesi, contenuta nel rapporto Measuring the Information Society 2013. Nel documento reso noto il 7 ottobre scorso a Ginevra si indica che 1,1 miliardi di famiglie nel mondo, che per il 90% si trovano nei Paesi in via di sviluppo, non sono ancora connesse a internet.
La Corea del Sud, per il terzo anno consecutivo, arriva in testa alla classifica dei Paesi più avanzati al mondo in termini di tecnologie ICT, seguita da Svezia, Islanda, Finlandia e Norvegia, mentre l’Italia scende in un anno dalla 29a alla 30a posizione.
Per la prima volta, il rapporto analizza la generazione dei cosiddetti nativi digitali: nel 2012 erano circa 363 milioni, pari al 5,2% della popolazione mondiale (circa 7 miliardi) e al 30 % della popolazione giovanile mondiale, ma con un vasto divario tra Paesi in via di sviluppo e sviluppati. Il modello definisce nativi digitali i giovani tra i 15-24 anni con cinque o più anni di esperienza online. In base a tale definizione, in Italia i ”nativi digitali” sono pari al 6,7% della popolazione totale e al 67,8% del numero totale di giovani.
All'inizio del 2013, risulta che quasi l'80% delle famiglie nel mondo aveva il televisore. La percentuale scende al 41% se parliamo di pc e al 37% in termini di accesso internet. Il rapporto mostra che il numero delle abitazioni con accesso alla rete è in aumento in tutte le regioni, ma permangono differenze importanti con tassi di penetrazione che dovrebbero raggiungere entro la fine di questo anno quasi l'80% nei Paesi sviluppati e il 28% nei paesi in via di sviluppo.
Nel giugno scorso Marco Gui, ricercatore al dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università Milano-Bicocca, sociologo dei media, lanciava l’allarme “Troppa tecnologia danneggia gli studenti”, traendo spunto dagli esiti della prima indagine sugli studenti italiani. I dati della ricerca mostrano come un uso intensivo di Internet, senza una guida, può influire negativamente sui risultati scolastici danneggiando concentrazione e apprendimento.
La ricerca è stata svolta su un campione di 2400 studenti di scuole superiori della Lombardia, attraverso un questionario sull’utilizzo di Internet incrociato poi con i risultati conseguiti dagli studenti nei test INVALSi per l’anno scolastico 2011/2012. Le domande nel questionario andavano dalle ore di utilizzo quotidiano dei social network a quelle impiegate per giocare online, dalla frequenza dell’uso di Internet per lo studio a quello per la creazione di contenuti originali, come per esempio la gestione di un blog. In tutti i casi i grafici mostrano una correlazione negativa tra utilizzo intensivo del web e risultati scolastici.
“Nei grafici -ha spiegato Marco Gui presentando gli esiti della ricerca- emerge un' associazione negativa "internet/studio", ma la causa potrebbe essere inversa: chi non ha voglia di studiare tende a stare più tempo su Internet. Risulta evidente comunque che i due comportamenti sono collegati. E siccome queste associazioni sono già al netto di variabili di controllo – genere, status sociale – viene il sospetto che vi sia anche un rapporto di causalità, tale da metterci in guardia nei confronti di una visione troppo pro-tecnologia sia a scuola che a casa”. La ‘curva a montagna’ dimostra in maniera graficamente impattante la conclusione dell’analisi dei ricercatori milanesi. Infatti, se inizialmente la correlazione tra ore di utilizzo di Internet e risultati scolastici è positiva, al superamento di una certa soglia il trend s’inverte: la linea nel grafico scende a picco verso i valori più bassi registrati nel test INVALSI. Marco Gui ha avanzato delle ipotesi sul perché. “Siamo ancora in uno stadio in cui l’utilizzo della tecnologia finalizzato ad apprendimento e conoscenza è sottosfruttato. Quando abbiamo chiesto ai ragazzi che uso fanno di Internet, abbiamo incluso anche quello scolastico. Ma l’indice che analizza l’uso del Web nella scuola non ci dice che cosa fanno i ragazzi precisamente: possono semplicemente copiare informazioni, cose già fatte, e questo sarebbe un uso negativo. Oppure potrebbero cercare approfondimenti e spiegazioni su quello che hanno appreso in classe, e questo sarebbe l’uso positivo. L’indice è dunque ancora abbastanza grezzo”.
E i "Nativi digitali"? Sorprendentemente, anche gli studenti che passano molto tempo su Internet per produrre contenuti nuovi e originali, per esempio curando un blog o un sito web, denotano uno scarso rendimento nei test INVALSI. Non solo: “Nella nostra ricerca emerge che gli studenti che creano i contenuti sono più quelli che fanno formazione professionale, che frequentano cioè le scuole meno avvantaggiate dal punto di vista dei livelli di apprendimento. I ragazzi dei licei tendono a usare di più Internet nella ricerca di informazioni”, ha rilevato Gui. “Questo potrebbe dipendere dal fatto che i ragazzi dei licei, con ceto mediamente più alto, tendono a fare più attività extrascolastiche pomeridiane, per esempio sport, corsi di inglese ecc., mentre i ragazzi del professionale di solito hanno più tempo libero da gestire. Magari esprimono di più la creatività rispetto ai licei”. E proprio la misura della creatività esula dai dati dei test INVALSI.
È difficile, quindi, capire se i nuovi nativi digitali stanno apprendendo sul web competenze nuove, che sfuggono alle tradizionali rilevazioni delle capacità di apprendimento. “Questi ragazzi che fanno attività di creazione di contenuti magari non vanno benissimo nei test INVALSI, ma forse stanno acquisendo competenze grafiche o professionali per il web. Questo è un quesito aperto difficilmente analizzabile quantitativamente”, ha ammesso Gui. “Anche l’apprendimento potrebbe essere un elemento in evoluzione, le competenze importanti nella società dell’informazione potrebbero essere diverse rispetto a quelle tradizionali. Resta però l’importanza di essere in grado di leggere e comprendere un testo scritto, di svolgere operazioni logiche e così via: quello che i test INVALSI misurano”.
Parallelamente è stata portata avanti, sempre dall'Università Milno-Bicocca, un’altra ricerca presso l’istituto comprensivo “Leone XII” di Milano: “Qui nelle prime media abbiamo svolto una sperimentazione, un’attività di media-education consistente – tra l’altro – nel proporre un’astinenza da Internet di alcuni giorni”, ha raccontato Marco Gui. “Al termine dell’esperienza, tra le cose positive guadagnate, i ragazzi indicavano una maggiore concentrazione, magari nella lettura di un libro, che prima non era possibile. Questi dati possono essere quindi interpretati anche in questo senso: Internet non favorisce la concentrazione. Messaggini, notifiche, post su Facebook interrompono continuamente le nostre attività e la nostra concentrazione”.
Una constatazione che sta portando molti studiosi a lanciare l’allarme su una vera e propria epidemia, la sindrome del deficit di attenzione, che da disturbo legato all’infanzia e alla prima adolescenza si sta ora diffondendo anche negli adulti web-dipendenti. “La mia posizione con i dati disponibili è che l’uomo di cultura di oggi deve saper bilanciare queste due dimensioni, l’uso di Internet e quindi la navigazione tra molteplici fonti e la capacità di concentrazione profonda su una sola fonte”, ha affermato Gui. “L’unico modo in cui l’uomo può essere davvero creativo e produrre qualcosa di veramente nuovo è attraverso la concentrazione. Per questo, la grande sfida dell’era digitale sarà quella di sapersi ritirare di tanto in tanto dal flusso degli stimoli, di staccare ogni tanto la spina”.