Lunedì, 27 Gennaio, 2014 - 18:45
(Avvenire 19 gennaio 2014)
Siamo dentro una eclissi del tempo. La logica dell’economia capitalistica, e la sua cultura che sta dominando incontrastata su molta parte della vita sociale e politica, non conosce la dimensione temporale. Le sue analisi costi-benefici coprono pochi giorni, mesi, qualche anno – nella più generosa delle ipotesi.
Una tendenza radicale di questo capitalismo è infatti il progressivo accorciamento dell’arco temporale delle scelte economiche, e quindi di quelle politiche sempre più guidate dalla stessa cultura economicistica. La rivoluzione industriale, prima, quella informatica poi, e infine quella finanziaria hanno sottratto tempo alle scelte economiche, fino ad arrivare alle frazioni di secondo di alcune operazioni altamente speculative.
Eppure, ce lo ricordava Luigi Einaudi, «nel Medioevo si costruiva per l’eternità»; si agiva e pensava in un orizzonte infinito che era sempre presente e orientava le scelte concrete, dall’onorare i contratti fino ai pentimenti e lasciti in punto di morte di mercanti e banchieri. La profondità del tempo, quello da cui proveniamo (storia) e quello verso cui andiamo (futuro), è assente dalla nostra cultura economica, e, come conseguenza, anche dalla nostra cultura civile, dalla formazione degli economisti, dal sistema educativo.
Stiamo così precipitando in un mondo troppo simile a quello descritto in Flatland (terra piatta) dall’inglese E.A. Abbott (1884). In quel racconto, un abitante della terra a due sole dimensioni, Flatland, entra un giorno in contatto con un oggetto a tre dimensioni (una sfera) proveniente da Spaceland. Molto suggestivi e attuali i dialoghi e le riflessioni del libro, tra cui l’intuizione che in un mondo a due dimensioni, non essendoci la profondità e la prospettiva, la socialità è molto povera, rivale, posizionale, gerarchica. Le donne vengono descritte da Abbott come delle rette (una sola dimensione), in polemica con la società maschilista del suo tempo che non riconosceva alle donne la dimensione politica e pubblica.
Un ipotetico viaggiatore del tempo, che provenisse dal Medioevo, arrivando nella nostra società farebbe una esperienza molto simile a quella della sfera descritta in Flatland, perché sarebbe fortemente impressionato dall’assenza della terza dimensione, quella del tempo. Quando, qualche decennio fa, affidammo il disegno e il governo della vita sociale alla logica dell’economia capitalista, rinunciando al primato del civile e del politico sull’economico, quando l’homo oeconomicus con la sua tipica logica divenne via via l’unico abitante che conta e comanda nelle stanze del potere, iniziò la progressiva e inevitabile caduta in una nuova Flatlandia, in una terra a due sole dimensioni: dare e avere, costi ricavi, profitti e perdite, qui e ora, base e altezza. Una tale terra piatta dove resta solo lo spazio.
Una prima conseguenza di una cultura piatta e senza tempo è la produzione di massa fondata sull’effimero e sulla non durata delle cose e dei rapporti. Gli oggetti devono essere velocemente sostituiti, altrimenti si inceppa la macchina consumo-produzione-lavoro-crescita-Pil. Chi in altre epoche non dominate dall’economico iniziava a costruire una cattedrale, o chi adornava con opere d’arte una piazza, non aveva come obiettivo il consumo e il deterioramento veloce di quell’opera, non voleva che “scadesse” per essere presto ricostruita. Se non fosse stato così, non avremmo la Cappella Sistina, il Flauto Magico di Mozart, San Luigi dei Francesi. Lo scopo di quelle antiche costruzioni erano la magnificenza e la durata: si volevano produrre beni durevoli, che non si consumassero. La costruzione artistica e artigiana era costruzione di durata, e la “regola d’arte” e la reputazione del loro autore erano commisurate prima di tutto su questa durata. E così quelle antiche opere durevoli sono ancora capaci di amarci, di renderci felici, di farci vivere.
Tutte le civiltà (quantomeno quelle che sono sopravvissute) hanno avuto tre grandi “custodi del tempo”: le famiglie, le istituzioni pubbliche, le religioni. Le famiglie sono l’argilla con cui il tempo dà forma alla storia. Un mondo che perde la dimensione del tempo non capisce i patti, l’amore fedele, il “per sempre”, non dà valore alla memoria e al futuro. E quindi non capisce e combatte la famiglia, che è tutto questo messo assieme. Le istituzioni, poi, consentono che nella staffetta tra le generazioni, quando finisce la corsa ci sia ancora un traguardo, si siano conservate e non degradate le regole del gioco, che abbia ancora senso correre e il correre del tempo abbia un senso (direzione e significato). All’interno di queste istituzioni anche quelle economiche hanno avuto, e hanno, un ruolo importante. Le banche, ad esempio, sono state la cinghia di trasmissione della ricchezza e del lavoro tra le generazioni. Hanno saputo conservare e accrescere il valore del tempo. E quando le banche si smarriscono, dimenticano il valore del tempo perché non lo servono più ma speculano su di esso, ieri e oggi si comportano “contro natura” e vanno contro il Bene comune. I nfine le religioni, le fedi, le chiese.
Per poter capire il tempo e costruire per il futuro occorre una visione del mondo più grande del nostro orizzonte temporale individuale: ecco perché le grandi opere del passato erano sempre profondamente legate alla fede, alla religione, che legava ( religo ) il cielo con la terra e le generazioni tra di loro, che dava senso all’inizio di un’opera che il suo iniziatore non avrebbe visto né tantomeno goduto. Le religioni e le fedi sono soprattutto il dono di grandi orizzonti nel cielo di tutti.
Un homo oeconomicus senza figli e senza fede, che vive in una società con famiglie fragili e corte, non ha nessuna buona ragione per investire le sue risorse in opere che vadano oltre se stesso: l’unico atto razionale è consumare tutto entro l’ultimo giorno della sua vita. Ma un mondo di homines oeconomici con prospettive che non eccedono la loro esistenza terrena, non è capace di edificare opere grandi, né di vero risparmio che ha la sua radice profonda anche nella consapevolezza che la vita delle nostre opere e dei nostri figli deve essere più lunga e grande della nostra. È quando manca l’asse del tempo che si compie su larga scala il peccato sociale dell’avarizia, perché la più grande avarizia è eliminare il domani dall’orizzonte. Per questa ragione non c’è atto più ir–religioso di questa avarizia sociale e collettiva. Nell’eclisse del tempo c’è una immensa, epocale, abissale carestia di futuro.
Le Chiese, le religioni e i carismi dovrebbero tornare a investire in opere più grandi del loro tempo, seminare ed edificare oggi affinché altri possano raccogliere domani. Esperti di tempo e di infinito, devono occuparsi del futuro di tutti. Le passate generazioni di europei, soprattutto quelle a cavallo tra Medioevo e Modernità, hanno saputo fare questo, e così hanno edificato opere magnifiche che ancora ci danno identità, bellezza, e ci fanno lavorare. E i carismi hanno generato migliaia di opere (ospedali, scuole, banche …) che ancora ci arricchiscono, ci curano, ci educano, perché quegli uomini e quelle donne sapevano vedere orizzonti più grandi dei nostri. Quali grandi opere stanno edificando oggi le religioni, le chiese, le fedi, i carismi? Dove sono le loro università, banche, istituzioni?
Alcuni semi ci sono, ma sono troppo pochi e il terreno nel quale sono caduti non è ancora abbastanza fertile e coltivato perché quei semi possano diventare un giorno grandi alberi e foreste, per ridonare tempo e futuro al nostro mondo piatto: «I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio» (Evangelii gaudium).
l.bruni@lumsa.it
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