Stare a scuola ha sempre meno senso per i ragazzi di oggi: di qui depressione, senso di fallimento, abbandono precoce, aggressività, bullismo, burn out dei docenti. A molti giovani la scuola appare un microcosmo chiuso che ha poco a che fare con la loro vita. Mentre la condizione degli insegnanti, esposti allo stress e al conseguente rischio di contrarre gravi patologie in una percentuale superiore a quella di altre categorie di lavoratori, è sempre più ridotta a quella di un proletariato intellettuale mal pagato, senza prestigio sociale. Decontestualizzato dalla grave situazione in cui versa la scuola italiana, e dalla bassa qualità morale di classe politica e società civile, l’acceso dibattito intorno alla figura del preside manager, così come la questione della valutazione degli insegnanti, risultano fuorvianti.
Per cominciare a costruire una buona scuola è necessario anzitutto che le famiglie funzionino come luoghi dell’educazione e che il facilismo e il lassismo siano veramente contrastati. Bisogna avviare inoltre una vera politica di investimenti perché scuola di massa e scuola di qualità non siano più un ossimoro. Altrimenti una valutazione degli insegnanti (ma anche degli studenti e dei dirigenti scolastici) non può esprimere alcuna verità.
Lorenzo Catania, Catania
Gentile Lorenzo, a livello centrale si sgretola un sistema che, smarrita la funzione educativa e di offerta di possibilità a tutti, arroccatosi in palazzi kafkiani, da anni ha sostituito sforzi (anche economici) e impegno verso i ragazzi, con la burocrazia, direttamente proporzionale all’autoreferenzialità del sistema stesso (ci vuole meno tempo a portare i ragazzi al museo che a compilare le carte per giustificarne l’atto). Il dibattito, al netto delle polarizzazioni ideologiche, si carica di una iper-richiesta, affidiamo alla scuola responsabilità che non ha. In una società in cui la famiglia si è ed è stata privatizzata, restringendosi soltanto a luogo di affetti (i sociologi la chiamano «famiglia affettiva»), evapora il ruolo culturale e simbolico della stessa, che proietta la sua assenza su altri interlocutori, additati spesso come colpevoli (in primis la scuola).
I ragazzi di oggi sono generati biologicamente e non culturalmente: «mio figlio non legge, è colpa dell’insegnante» (forse non legge anche perché non vede libri sul comodino dei genitori, non ha ascoltato le favole, ma solo la tv). Io li vedo: diventano figli della «fama» (non si può non esser generati culturalmente), perché chi non ha e non è una storia, è preda delle storie della maggioranza.
Resta comunque vero che la scuola è uno dei principali luoghi in cui questo esser generati «culturalmente» può essere riparato, completato, arricchito, ma solo se la famiglia resta protagonista (se un ragazzo ha un incidente, i genitori corrono entrambi in ospedale, ma al colloquio con il professore viene solo uno dei due, per lo più la mamma. La salute dell’anima è meno importante di quella del corpo?), e se la scuola è luogo di cultura (non sa quante lettere di ragazzi ricevo in cui sono descritte situazioni di docenti che non fanno lezione e nulla può esser cambiato).
Gli insegnanti non possono né devono fare miracoli, tanto più se la loro è una corsa ad ostacoli verso la medaglia d’oro al burn-out: assomigliamo più a Sisifo che a Socrate. Abbiamo bisogno che le famiglie riconoscano la dignità che abbiamo e per prime si alleino con noi, per dare ai figli quello che il Palazzo non potrà mai dare con una riforma: «quando l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte» diceva un personaggio shakespeariano. Siamo troppo impegnati a dare oggetti e non progetti, quando invece è la cultura, cioè la capacità di leggere e abitare il mondo, l’unica risorsa per cambiarlo. Prima in casa, poi a scuola.