Con tutto il rispetto che si deve a una personalità della levatura di Sabino Cassese, mi sento di muovere alcune obiezioni al ragionamento che ancora una volta ripropone in un suo articolo di ieri sul Corriere della Sera, per la non rispondenza alla realtà di talune considerazioni e perché si presta a consolidare schematismi che sarebbe invece necessario abbandonare per affrontare in modo realmente costruttivo un tema, il reclutamento dei docenti, su cui già troppe sono le banalizzazioni e le strumentalizzazioni.
Parto da ciò che non corrisponde alla realtà, almeno per quanto riguarda la scuola pubblica statale: ossia che in assenza di concorsi si possa diventare insegnanti “sulla base del clientelismo, delle simpatie politiche, della famiglia di appartenenza, o del caso”. Non so a quali esperienze – forse al mondo accademico? – faccia riferimento Cassese, ma nella scuola il suo ragionamento non trova proprio alcun riscontro. I 200.000 precari che vi lavorano (un quarto del personale, e senza di loro semplicemente la scuola non potrebbe funzionare), svolgendo a tutti gli effetti un lavoro pubblico, non vi accedono grazie a scelte e decisioni arbitrarie, o sfruttando condizioni di favore o di privilegio, ma tramite graduatorie le cui modalità di formazione assicurano un altissimo grado di obiettività e trasparenza, in piena coerenza con l’art. 97 della Costituzione.
Altrettanto infondata è l’affermazione per cui i sindacati sarebbero attenti alle “voci di dentro” e non alle aspettative dei giovani aspiranti all’impiego pubblico, nel nostro caso all’insegnamento. Ragionassimo per mera convenienza, avremmo tutto l’interesse ad occuparci ancor di più delle decine e decine di migliaia di giovani aspiranti all’insegnamento cui offriamo da sempre un supporto, qualificato e apprezzato, nella preparazione alle prove concorsuali. Per inciso, rendendo un servizio che va comunque a beneficio della qualità professionale cui la scuola può attingere, anche solo nel momento in cui ricorre al conferimento di supplenze.
E vengo al secondo aspetto del ragionamento di Cassese, quello secondo cui “solo con i concorsi c’è la possibilità di scegliere i migliori”. Premesso che non ho un’opposizione di principio ai concorsi per esami, di cui casomai andrebbe garantita una regolare periodicità, oltre a una cura più attenta nel gestirli, prevenendo le ragioni che rendono ormai una consuetudine – quella sì regolare – il ricorso ai tribunali amministrativi, mi limito a due sole considerazioni, escludendo volutamente ogni accenno ad altre possibili degenerazioni cui purtroppo anche il concorso, come ogni modello astrattamente definito, può andare incontro nella sua concreta attuazione.
La prima: nessun meccanismo di selezione, anche il più accurato, può bastare di per sé a garantire che chi vince sia davvero e insindacabilmente “il migliore”, o semplicemente adatto al ruolo. Tanto è vero che anche i vincitori di concorso sono tenuti a dimostrare sul campo di essere veramente all’altezza del compito loro assegnato, dovendo superare un periodo di prova che non a caso per gli insegnanti ha la durata di un anno scolastico, nel corso del quale il loro lavoro viene osservato, sostenuto anche in termini formativi, valutato. Bastasse il concorso, non ve ne sarebbe alcun bisogno.
La seconda osservazione è in qualche modo collegata alla prima: è davvero un paradosso accettare, senza alcuna obiezione, che un docente lavori, spesso per moltissimi anni, in condizioni di precarietà, e nel momento in cui si profila un’opportunità di stabilizzazione del suo lavoro stracciarsi le vesti perché si violerebbe la meritocrazia e l’assunzione avverrebbe – solo allora, e non prima - senza sufficienti garanzie di qualità. Credo che per cogliere limiti e incongruenze di tale atteggiamento, molto diffuso, basti davvero poco.
Eppure sono questi gli esiti a cui si approda, nel ragionare e nella concreta esperienza, quando le opzioni di principio si radicalizzano sfociando in uno schematismo che prescinde dalla realtà e spesso la travisa. Ad esempio, classificando come “sanatoria” ogni tentativo di rimediare a un evidente abuso del lavoro precario, anziché porsi il problema di come valorizzare la consistente esperienza di lavoro di cui la scuola si avvale in così larga misura; senza risultati disprezzabili, potremmo anche dire, visto che le aree in cui è più alta la percentuale di precari sono anche quelle che fanno registrare buoni piazzamenti nelle classifiche periodicamente stilate in ambito internazionale sui livelli di apprendimento. Non insisto più di tanto su quella che potrebbe essere giudicata una banalizzazione: ma quante altre ne vengono sfornate ogni giorno da molti sbandieratori della meritocrazia! E mi spiace che una personalità come Cassese possa ritrovarsi, penso involontariamente, a far loro da sponda.
Fuori da insensati arroccamenti, esistono ampi spazi per individuare in tema di reclutamento soluzioni che tengano assieme, oltre al dovuto rispetto del già citato art. 97 della Costituzione, due esigenze fra loro conciliabili: offrire da un lato ai più giovani immediate opportunità di accesso all’insegnamento, e nello stesso tempo valorizzare l’esperienza di lavoro acquisita attraverso contratti a tempo determinato, evitando – in ossequio alle direttive comunitarie - ogni abuso di lavoro precario. Rivisitare, aggiornandolo, il sistema di reclutamento a doppio canale è la proposta che da tempo la CISL Scuola sostiene: il dato di novità potrebbe aversi focalizzando l’attenzione su opportuni supporti formativi e valutativi, utili anche a promuovere la miglior qualità del lavoro. Supporti da introdurre o irrobustire, quale che sia il canale di accesso all’insegnamento, per accompagnare da subito il percorso di chi intraprende, anche precariamente, un’attività di insegnamento. Ragioniamo insieme di questo, se vogliamo traguardare una soluzione di sistema e affrancarci da un’interminabile rincorsa delle emergenze: indugiare in polemiche di scarso fondamento sarebbe un’inutile e colpevole perdita di tempo.
Roma, 12 maggio 2021
Maddalena Gissi, segretaria generale CISL Scuola